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venerdì 23 giugno 2017

BERND E HILLA BECHER e la Scuola di Düsseldorf



Coppia nella vita e nell'arte Bernd (1931-2007) Hilla (1934-2015) Becher si erano conosciuti nel 1957 in un'agenzia pubblicitaria a Düsseldorf e avevano iniziato a lavorare insieme due anni dopo.
In seguito alle gravi rivoluzioni sociali e tecnologiche, il paesaggio industriale tedesco stava rapidamente cambiando ed i Becher cominciarono a scattare e a raccogliere fotografie delle architetture che ne avevano definito il volto, con lo scopo di preservarle per i posteri prima che sparissero.
Gasometri, ciminiere, silos, torri di raffreddamento, essicatoi, altiforni e forni da calcina abbandonati diventarono i soggetti esclusivi di una rigorosa catalogazione che, partendo dalla Ruhr, si estese presto anche in Francia, Gran Bretania, Lussemburgo, Belgio e Stati Uniti.







Per raggiungere il più alto grado di anonimato e oggettività, ogni fotografia, rigorosamente in bianco e nero, doveva fissare il soggetto frontalmente e a metà altezza, senza alcuna sfumatura, presenza animata o effetto artistico  e con le stesse condizioni di luce restituite da un cielo nuvoloso grigio-chiaro che non consentisse ombre troppo nette.


I Becher cercavano un soggetto che risultasse peculiare grazie alla mancanza di creatività formale. Questa freddezza unita all'ordinarietà delle immagini era inoltre accentuata dalla loro particolare presentazione, sceglievano infatti di esporle a gruppi da 6 a 24 secondo due criteri fondamentali: lo stesso soggetto colto da diversi punti di vista

la somigliglianza degli edifici


                            
e fu proprio il  rigore compositivo e formale, la serialità, l'ostentata freddezza, l'assenza di creatività, le atmosfere sospese e la preferenza per gli spazi architettonici e i luoghi dell'abitare l'eredità che i coniugi Becher lasciarono ai propri allievi.
Fondatori della classe di fotografia all'Accademia delle Belle Arti di Düsseldorf, tra la metà degli anni Settanta e la fine dei Novanta, attuarono una vera e propria rivoluzione. 
I due insegnanti aprirono le porte ad un nuovo modo di fare e pensare la fotografia e, caricandola di un apparato concettuale, negli anni Ottanta la fecero arrivare  allo stesso livello delle forme d'arte più storiche e consolidate, prima fra tutte la pittura.
Per loro era importante rendere consapevoli gli studenti che stavano facendo qualcosa dello stesso valore della pittura e che il lavoro non doveva avere necessariamente un'utilità pratica. 
Dalla "Scuola di Düsseldorf" si formarono tre generazioni di fotografi, molti dei quali riuscirono a rielaborare gli insegnamenti dei maestri in percorsi autonomi e originali, spingendo a loro volta l'immagine verso frontiere inaspettate.
I più conosciuti sono Thomas Ruff, Thomas Struth, Andreas Gursky e Candida Höfer.

Thomas Ruff (1958) ha realizzato con uno stile attentamente impersonale le sue differenti serie, ritratti, paesaggi notturni e cieli stellati, per riflettere sul concetto di oggettività.
La linea di confine tra autenticità e falso è espolrato con piccoli ritocchi digitali alle immagini, che non vogliono comunicare allo spettatore alcun sentimento. Anche il cielo stellato, la visione sublime per eccellenza, viene tradotta con uno stile piatto ed uniforme che elimina ogni aura di romanticismo

 

Thomas Struth (1954) è quello che più avvicina l'immagine fotografica a quella pittorica.
La sua originale passione per la pittura (all'Accademia di Düsseldorf si era iscritto inizialmente alla classe di Gerhard Richter) si realizzerà infatti dietro l'obiettivo perché, anche grazie ai suoi maestri, comprenderà che nella fotografia "c'era già tutto quello che volevo mostrare".
I suoi ritratti di famiglia e le sue celebri Museum photographs



simili per formato e colore alle grandi pale d'altare, sono infatti immagini fortemente simboliche che rivelano tutto l'interesse dell'artista per la storia dell'arte, per le tante relazioni che si possono considerare all'interno di una singola immagine e il rapporto dell'uomo con gli ambienti contemporanei a cominciare dai musei.
L'obiettivo di Andreas Gursky (1955) invece si allarga fino ad includere vaste porzioni di vita contemporanea: luoghi di lavoro o di svago popolati da tanti essere umani che mai, come nei suoi scatti, sembrano insetti guidati da volontà superiori







Negli interni documentati da Candida Höfer(1944), luminose sale di palazzi settecenteschi, biblioteche, teatri e anonime sale riunioni, l'uomo invece non compare, anche se la sua presenza è fortissima, sia nella costruzione architettonica, sia nella necessità di incontro che gli spazi esprimono.
























domenica 18 giugno 2017

POSTNATURALIA - Krištof Kintera


Alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia fino al 31 luglio 2017 è possibile ammirare la complessa installazione scultorea realizzata da Krištof Kintera con la collaborazione di Richard Weisner e Restislav Juhàs dal titolo Postnaturalia.
Nella cosiddetta "età del rame", basata sulla trasmissione di energia ed informazioni, la natura è paragonata dall'artista a un enorme sistema nervoso ed anche per questa ragione 


che il progetto di Kintera si innesta in diversi spazi della Collezione come in un organismo vivente.
Innanzitutto la Natura viene ricreata e rigenerata nello spazio denominato Laboratorio dell'artista: immagini, fotografie, appunti e disegni alle pareti, materiali di scarto, elettrici ed elettronici, sostanze chimiche ecc.






sono tutti strumenti e oggetti del mestiere che divengono per l'artista elementi generativi di una nuova bellezza naturale.
Nello spazio sono presenti anche alcuni video che riportano suoni e processi di lavoro reali di Kintera nel suo studio di Praga.


Prendendo a modello l'attitudine dello scienziato e i suoi prototipi (modellini ed erbari conservati in teche nel laboratorio) nuovi tipi di piante vengono coltivate, classificate e seminate in un ampio sistema nervoso para-vegetale che trova spazio in una seconda sala della Collezione.
Il Systemus Postnaturalis presenta un tappeto sintetico di piante che cresce tra un'intricata rete radicolare di rame: tre isole che sono raccordate tra loro per percorsi esperibili dal visitatore 




anche la luce, che ne favorisce la crescita, viene pilotata artificialmente nello spazio.



Nell'ingresso principale, fra l'atelier e il bosco sintetico, si innalza un'imponente scultura di oltre tre metri Electrons Seeking Spirit, l'opera, realizzata con cablature di fili che ne costituiscono lo scheletro portante, termina con una testa di animale. Intorno a questa gravitano altre piccole sculture, creature che provocano un senso di panico collettivo per un "sistema senza spirito".

       

Uscendo in giardino, sotto piante vere, le opere Praying Woods sono ritualmente protese verso il cielo o prostrate verso terra. la loro struttura fa parte della "natura naturale": raccolte dall'artista nei boschi del suo Paese, sono state immerse e congelate in un bagno d'argento.



A questa proliferazione di suggestioni nella Collezione si sommano opere disseminate in altri luoghi della città di Reggio Emilia come ad esempio i Musei Civici.
Anche se il lavoro di Kintera può sembrare giocoso e un po' ironico, l'artista vuole sollecitare consapevolezza sulla questione natura, vuole ci si interroghi sul nostro tempo.
Il rapporto con la "Natura naturale", il tentativo di conoscere e di dare ordine alle diverse forme di vita biologica, sono per Kintera un punto di partenza che viene provocatoriamente sovvertito costruendo  scenari totalmente artificiali, lavorando e generando nuovi materiali sintetici  e prodotti di scarto che costituiscono il nostro habitat quotidiano para-naturale. Una provocazione malinconica che induce il desiderio di creare scenari alternativi in cui scienza e tecnologia - protagoniste nella costruzione del nostro paesaggio fisico e del nostro sistema di relazioni - possano procedere alla costante ricerca di un "nuovo umanesimo" in cui l'uomo rimanga solidamente al centro e avanzi senza dimenticare la sua identità, la memoria culturale in cui si inserisce la sua esistenza e la permanenza di relazioni reali.


Krištof Kintera (Praga nel 1973) vive e lavora a Praga. Ha frequentato la Academy of Fine Arts di Praga e la Rijksakademie van Beeldende Kunsten di Amsterdam. Ha esposto in musei e gallerie europee sia in mostre personali che collettive. Dal 1993 al 2007 ha anche collaborato alla creazione di campagne media, si è occupato di interior design, ha curato mostre, progettato scenografie e presentato numerose performance.








domenica 4 giugno 2017

Street Art: LE OFFICINE REGGIANE

Scesa dal treno a Reggio Emilia nell'assolato primo week-end di Giugno, sono stata folgorata dalla visione che appariva davanti a me: le mitiche Officine Reggiane di cui avevo letto sul libro Urban Lives di Ivana De Innocentis.


L'entusiasmo con cui Ivana aveva raccontato la magia del luogo e l'esperienza di aver visto "pittare" (in gergo dipingere) i muri di quel posto ormai abbandonato mi ha fatto nascere il desiderio di vederlo in prima persona.
Non so scrivere di Street Art o di Writing ma ne sono un'appassionata quindi, arrivata a Reggio Emilia per visitare la Fondazione Marramotti (Collezione d'arte del fondatore della casa di moda Max Mara), perché non fare un salto alle Officine Reggiane che erano lì a due passi?
Ex fabbrica nata all'inizio del Novecento per la produzione ferroviaria, proiettili d'artiglieria ed aerei da combattimento, oggi è abbandonata e, anche se ci sono dei cantineri attivi, ancora non si conosce la sua futura destinazione.
Oggi gli oltre 250 mila metri quadri su cui sorgeva ospitano graffiti risalenti al 2012 e da allora, come scrive Ivana De Innocentis "... sono un punto di riferimento importante per arte urbana, post-graffitismo e graffiti writing in Italia".
Gli artisti locali con gli artisti provenienti da tutta Italia contribuiscono a rendere vivo e a promuovere il valore storico del luogo.
Con il tempo le Officine Reggiane sono diventate un "parco giochi per writer e street artist" (cit. Collettivo FX - libro Urban Lives) e mi è stato consigliato di leggerlo come un laboratorio e non come un museo.
Nel corso degli anni  si sono cimentati molteplici artisti di Street Art i cui eventi sono stati puntualmente raccontanti nel blog di I. De Innocentis.
Ora non mi resta che farvi vedere alcune fotografie ...

      



WARNING: per il degrado della strutture il luogo è altamente pericoloso. Pertanto non accedete nelle aree sopra menzionate. 

 










giovedì 1 giugno 2017

OPERE D'ARTE: La maja desnuda e La maja vestida di Francisco Goya



La maja desnuda (1797-1800) è l'unico nudo femminile eseguito in un'epoca in cui l'Inquisizione proibiva questo genere di raffigurazioni



Commissionata sicuramente da Manuel Godoy, divenuto dal 1875 mecenate di Goya, di essa si fa menzione per la prima volta nel 1800, quando ancora si trovava nel suo palazzo e nel 1808 figurava  nell'inventario dei  beni che gli furono sequestrati dopo la cosiddetta "rivolta di Aranjuez"che lo portò in disgrazia.
Il dipinto era esposo in una sala riservata del palazzo, insieme ad altri nudi, che gli erano stati donati dalla duchessa di Alba.
La maja desnuda, forse più di qualsiasi altro nudo, ispirò una vasta letteratura. Ad alimentarla, in parte, il romantico alone di mistero che circondava la modella, identificata alternativamente con la duchessa di Alba o con Pepita Tudò, amante di Godoy.
La straordinaria modernità dell'opera è dimostrata dall'assenza di motivi allegorici. Goya la concepì come una rappresentazione di Venere. La donna, raffigurata con immediatezza e realismo, senza intenti mitologici o storici, guarda lo spettatore con i suoi occhi vivaci in cui è assente ogni forma di pudore.
La posa della modella ricorda dipinti di epoche passate come 
la Venere dormiente realizzata da Giorgione tra il 1507 e il 1510 


oppure La ninfa della fontana realizzata da Cranach il Vecchio nel 1534

mentre lo sguardo diretto ricorda la Venere di Urbino di Tiziano (1538)

e ci rimanda all'Olympia di Manet del 1863

alla Donna regale dipinta da Gauguin nel 1896
e al  Nu cauché au coussin bleu realizzata nel 1916 da Modigliani
La maja vestida, è stata dipinta dopo la maja desunta e compare anch'essa nell'inventario dei beni confiscati a Godoy nel 1808.


L'abito bianco aderisce al corpo carezzandone le forme, mentre lo sguardo fissa maliziosamente lo spettatore. 
L'artista dipinge sia l'abito che la fascia rosa e la giacchetta, ornata di nappe, con pennellate vibranti e libere.
Per la Maja vestida è più difficile trovare analogie, le donne  vestite in posa su un divano assumo spesso atteggiamenti più impostati e composti, che non lasciano comprendere se sotto l'abito di seta si cela un'amante o una moglie.


Giovane donna in grigio - 1979. Berthe Morisot
Un dipinto di Matisse del 1917 Lorette con tazza di caffè ci rimanda alla Maja vestida: la modella è avvolta in un abito bianco, le braccia sono sollevate e lo sguardo è rivolto verso lo spettatore ma non troviamo il divano perché Lorette è morbidamente distesa a terra 



Nel 1815 l'Inquisizione ordinò a Goya di svelare per chi fossero stati dipinti i quadri e con che finalità: la risposta data dall'artista resta tuttora ignota.
Dopo la confisca, le majas furono trasferite prima alla Real Academia di San Fernando (anche se fu esposta solo la vestida) e poi, nel 1901, al Museo del Prado.