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lunedì 27 aprile 2020

Donne nell'arte: EVA HESSE

Eva Hesse (Amburgo 1936 - New York 1969) si considerò un'artista sin da piccola, a sedici anni scrisse a suo padre: "sono un'artista. Credo che mi sentirò e vorrò essere sempre un po' diversa dalla maggior parte delle persone. E' per questo che ci chiamiamo artisti."
La sua famiglia lasciò Amburgo nel 1939 per sfuggire al regime nazista ed emigrò negli Stati Uniti. Lì Eva studiò prima alla Cooper Union School e poi dal 1957 al 1959 arti applicate alla Yale School of Art and Architecture, dove insegnava l'emigrato tedesco Josef Albers. Ma se il veterano del Bauhaus era favorevole ad un tipo di pittura rigorosamente razionale e sistematico, l'approccio della Hesse era più soggettivo ed influenzato dall'espressionismo astratto, come dimostrano i suoi lavori degli anni Sessanta.


Senza titolo - 1960
Senza titolo - 1960













Willem de Kooning, Arsile Gorky e Jakson Pollock erano il punto di riferimento costante del suo lavoro.
La svolta decisiva della sua carriera, cioè il passaggio all'opera tridimensionale, non avvenne però nell'ambiente newyorkese, ma durante una permanenza di quattro mesi in Germania, tra il 1964 e il 1965.
Eva Hesse ed il marito Tom Doyle
Il fabbricante di tessuti e collezionista d'arte Arnard Scheidt aveva invitato lo scultore americano Tom Doyle, marito della Hesse, ad utilizzare come studio l'edificio di una vecchia fabbrica a Kettwig an der Ruhr e durante questo periodo Eva  realizzò una grande quantità di grafici (che combinavano in modo surreale elementi meccanici ed organici) e quattordici plastici che furono esposti alla Kunsthalle di Düsseldorf nel 1965.
I plastici erano costruiti su pannelli di fibre rettangolari con gesso, cartapesta e fibre tessili come corde e lacci, e successivamente dipinti.  
In alcuni di essi erano presenti elementi che potevano muoversi nello spazio circostante come la corda viola in Up the Down Road (su per la strada) del 1965, un'opera che prefigura la sovversione della relazione convenzionale tra il piano, lo spazio e la cornice dell'immagine.



Il titolo potrebbe essere interpretato come il segno di una crisi personale di cui si trova traccia nei suoi diari, ma anche indicare il disagio provato nel tornare nel paese che aveva perpetrato l'olocausto e da cui lei e i suoi genitori erano fuggiti nel 1939.
Il ritorno a New York nel 1965 segnò la sua affermazione come scultrice. E' del 1966 Hang Up (appendere) una delle più suggestive opere dell'artista: una grande cornice vuota, completamente ricoperta di bende, alla quale era attaccato un filo d'acciaio che sporgeva verso l'esterno.


L'artista stessa definì questo lavoro come una delle sue  opere migliori dicendo che "per la prima volta era riuscita ad esprimere la sua idea di assurdo e le sue sensazioni più profonde".
Per molti dei suoi lavori fu difficile stabilire se si trattava di pittura o di scultura come nel caso di Contingent del 1969



costituito da otto vestiti di cotone immersi nel lattice e appesi in file parallele, perpendicolari alle pareti, oppure di Right After (subito dopo) sempre del 1969 


una composizione di corde di fibra di vetro bagnate nella resina e appese al soffitto per mezzo di uncini. Il titolo si riferiva al fatto che l'artista aveva lavorato a quest'opera subito dopo essere stata operata per un tumore al cervello che l'avrebbe poi uccisa nel 1970 a soli 34 anni.
La fragilità delle opere e i materiali deperibili utilizzati da 

Repetition Nineteen III - 1968
(fibra di vetro, poliestere, 19 pezzi diam. 30 cm. altezza 50 cm.)

Eva Hesse trovano un'analogia con la sua vita fatta di eventi tragici come il divorzio dei genitori e il successivo suicidio della madre, il fallimento del suo matrimonio e il suo stato fisico e mentale, ma la sua ricerca e l'originalità dei suoi lavori sono stati d'ispirazione per molti artisti.








"Ho cercato di dare vita ai contrasti più assurdi ed estremi. Questo per me è sempre stato più interessante della creazione di qualcosa di normale come le dimensioni e le proporzioni giuste." (E.H.)



sabato 18 aprile 2020

Donne nell'arte: DOROTHEA TANNING

La pittrice, scultrice e poetessa Dorothea Tanning (Galesburg  1910- New York 2012) è stata un punto di riferimento fondamentale nell'avanguardia della metà del Novecento, con un posto di particolare rilievo nella storia del Surrealismo.
Originaria di una piccola provincia dell'Illinois, ricevette la sua breve istruzione artistica all'età di vent'anni alla Chicago Academy of Art.
Lasciata la scuola d'arte dopo sole tre settimane,  cominciò a guadagnarsi da vivere facendo la modella per gli artisti, l'illustratrice e la marionettista.
Dopo cinque anni a Chicago, durante i quali frequentò anche un gangster, nel 1935 si trasferì a New York dove entrò in contatto per la prima volta con le opere dei surrealisti alla mostra Fantastic Art, Dada, Surrealism (tenutasi al MoMA nel 1936) la prima importante collettiva surrealista organizzata in America da Alfred Barr.
Osservando le opere esposte in mostra, vide legittimate le sue ambizioni artistiche che nutriva sin da bambina (a sette anni aveva già deciso di voler diventare un'artista e cominciò a  dipingere scene surrealiste molto tempo prima di sentir parlare del movimento, a quindi ritrasse una donna nuda con delle foglie al posto dei capelli) e poco dopo aver visto la mostra la Tanning cominciò a sviluppare il suo tipico stile che avrebbe caratterizzato il suo lavoro fino agli anni Cinquanta: scene oniriche e un po' gotiche, realizzate in modo tecnicamente impeccabile  sullo stile di Paul Delvaux e René Magritte .
Due quadri dei primi anni Quaranta sarebbero poi diventati icone surrealiste: Birthday (1942) in cui una statuaria raffigurazione di Dorothea Tunning a seno nudo fa la guardia a una bestia mitica che assomiglia a un lemure alato ed  Eine Klein Nachtmusik (Una piccola serenata - 1943) malinconica allegoria del risveglio sessuale che vede protagoniste due giovinette soggiogate da un gigantesco girasole.



Il desiderio di conoscere gli artisti surrealisti, nel 1939 la portò a trasferirsi a Parigi ma non poté incontrarli perché nel frattempo si erano rifugiati a New York per sfuggire alla guerra.
Ritornata in America Dorothea riuscì finalmente ad incontrarli: divenne molto amica di Marchel Duchamp e nel 1942 conobbe Max Ernst ad una festa e lo sposò nel 1946 quando lui divorziò da Peggy Guggenheim.  Restarono insieme  trent'anni, sino alla morte di lui nel 1976 stabilendosi prima a Sedona in Arizona e poi in Francia nella regione della Provenza ma non si fece mai influenzare dal punto di vista artistico dallo stile carismatico del marito.
Conservando la propria tormentata versione del surrealismo Dorothea Tanning dipinse con precisione accademica, dando vita ad un mondo  fatto di squallide camere d'albergo, corridoi e ballatoi, in cui ragazzi giovani interagiscono in modo bizzarro con mostri, cani e altre strane creature























Sul finire della carriera le sue composizioni si fecero più frammentarie e meno precise, quasi astratte. 


Affascinata dai manichini e dalle bambole realizzò  anche installazioni e scultore tra cui Chambre 202, Hôtel du Povot (1970)



o Nue Couchée (1969-70)



Morì a centuno anni a Manhattan dove tornò negli anni Ottanta dopo essersi trasferita dalla Francia.
Malgrado non desiderasse essere etichettata come surrealista, sono proprio le sue opere surrealiste ad essere oggi le più quotate.






"Suppongo che sarò definita una surrealista per sempre ... ma per favore non dite che sono la portabandiera del Surrealismo. Il movimento è finito negli anni Cinquanta e da allora il mio lavoro è andato talmente avanti che essere chiamata surrealista oggi, mi fa sentire un fossile". (Dorothea Tanning - 2002)

martedì 11 giugno 2019

Le donne nell'arte: KIKI SMITH

Figlia di Tony Smith, sculture ed esponente del movimento minimalista e di Jane Smith cantante lirica, Kiki Smith (Norimberga 1954) cresce in un ambiente "artistico" e si confronta precocemente con il mondo dell'arte e i diversi materiali che la circondano.
Ancora bambina, insieme alle sorelle, prepara i modelli di carta da cui il padre elaborava le sue sculture, poi durante l'adolescenza inizia ad interessarsi all'arte e all'artigianato popolare, diventando anche una fervente ammiratrice di Frida Kahlo.
Dopo aver vissuto un anno a San Francisco come membro del gruppo rock dei Tubes, nel 1974 si reca nel Connecticut dove per tre trimestri frequenta l'Hartford School of Art.
Nel 1976 si trasferisce a New York dove entra a far parte del gruppo di artisti Collaborative Projects Inc. (Colab) il cui primario interesse era trasformare in maniera creativa oggetti d'uso comune, che venivano rivenduti nel negozio A More Shop.
Nel 1979 , l'anno precedente alla morte del padre, riceve in dono da quest'ultimo Gray's Anatomy (lo stesso che appassionò J.M. Basquiat). Copiando gli schemi di questo manuale di anatomia del XIX secolo, all'inizio degli anni novanta inaugura il suo lavoro artistico incentrato sulla rappresentazione del corpo umano anche se già nel 1980 aveva esposto per la prima volta i suoi grandi disegni anatomici in una mostra collettiva.
"Il corpo - dice - è il nostro comune denominatore e il teatro dei nostri piaceri e dei nostri dolori. Attraverso esso voglio esprimere chi siamo, come viviamo e come muoriamo".
Harbor (Porto) 2015
arazzo in cotone Jacquard
Benché la scultura abbia assunto un ruolo preponderante nella sua pratica, il disegno rimane il fulcro della sua opera.
Figure-sentinella a grandezza naturale popolano l'universo di Kiki Smith, che attinge alle leggende folcloristiche, ai miti o ai racconti fantastici, raccogliendo gli archetipi che le sono cari e rimandando alla sua condizione di donna artista: il bambino selvaggio, la ragazza, l'animale.
Sempre a caccia di idee e possibilità di sperimentazione ha utilizzato materiali vari (vetro, porcellana, carta, argilla e bronzo) per rappresentare il corpo come sistema, analizzando i suoi significati e valori simbolici.
Al centro della sua ricerca artistica è la condizione umana (in particolare della donna) e la denuncia della sofferenza, del male, della sopraffazione che  agli esordi della sua carriera aveva espresso con un linguaggio graffiante e provocatorio.
Ne sono un esempio Shields del 1988 opera nella quale il ventre di una donna incinta è rappresentato come scudo, oppure Second Choise del 1987 dove vari organi sono disposti come frutti in una ciotola di ceramica per rappresentare una reazione al commercio di organi.




Le fonti di ispirazione delle sue opere sono eterogenee: antiche opere d'arte come l'altare di Isenheim di Grünewald, figure bibliche o mitiche come Maria Maddalena o Lilith 








ma anche favole e sogni, cosmo e stelle.
Nell'ambito della mostra Paradise Cage che si tenne a Museum of Contemporary Art di Los Angeles nel 1996, insieme ad uno Studio di architetti, realizzò uno scenario celeste di grande impatto sotto il quale comparivano 28 animali in vetro che rimandavano sia all'Arca di Noè che ad altre leggende.
Protagonista della  sua recente produzione artistica, frutto di un profondo rivolgimento espressivo e poetico è la natura vista come contenitore e forza generatrice.
Fortune 2014
Animali, vegetazione, figure umane, cieli e astri sono parte di un mondo denso di misteri e simboli, sospeso tra favola e mito dove le gerarchie sono abolite.
L'occhio dell'artista indaga tutto con curiosità e tenerezza, protegge le sue creature fragili e innocenti, crea un racconto nuovo in cui il pericolo e la minaccia rimangono indeboliti da una legge naturale superiore e potente.
L'energia rivoluzionaria che oggi anima l'anima di Kiki Smith sta nella pietosa universale, metafora della capacità tutta femminile di sanare le lacerazioni di un mondo spesso brutale e dissonante.

Alcune opere esposte alla mostra What i saw in the road - Palazzo Pitti 2019










giovedì 24 gennaio 2019

SANDY SKOGLUND. VISIONI IBRIDE dal 24/1/2019 al 24/3/2019




Curata da Germano Celant la mostra "Sandy Skoglund Visioni Ibride" riunisce lavori che vanno dagli esordi nei primi anni Settanta all'ancora inedita opera Winter alla quale l'artista ha lavorato per oltre dieci anni.
Un'anteprima mondiale che conferma l'unicità della sua ricerca e del suo linguaggio che si è formato in pieno clima concettuale per poi evolversi in un immaginario sospeso tra sogno e realtà, carico di una straordinaria potenza evocativa.
Attraverso oltre cento lavori tra fotografie (quasi tutte di grande formato) e sculture, la mostra permette di seguire il percorso dell'artista partendo dalle prime fotografie prodotte a metà degli anni Settanta come la serie Motels (1974) realizzata durante un viaggio seguendo un vecchio itinerario delle vacanze, sulla statale 1 da Boston a Portland nell'estate del 1974



e le opere dove già emergono i temi caratteristici dell'interno domestico e della sua trasformazione in luogo di apparizioni tra comico ed inquietante,

Hangers - 1979
fino alle grandi composizioni dei primi anni Ottanta, che hanno dato all'artista fama internazionale come Radioattive cast" del 1980 e Revenge of the goldfish del 1981, autentiche icone del periodo, rivisitazioni surreali e stranianti di ambienti famigliari dai colori improbabili, invasi pesci volanti.


Revenge of the goldfish - 1981
Le immagini nascono sempre dalla costruzione di un set molto complesso che l'artista poi fotografa



un procedimento che ben spiega la rarefatta produzione dell'artista e la peculiarità del suo percorso visuale, che è installativo, scultoreo  e fotografico; tutti elementi che si trovano nella mostra, dove alcune sculture rimandano alle fotografie e viceversa.


Una componente importante del linguaggio immaginario della Skoglund è il colore, usato sina dalla fine degli anni Settanta per realizzare fotografie enigmatiche efficaci e capaci di comunicare la densità e l'energia di una situazione estetica, connessa alla nuova espressività dei media. L'artista impiega tinte complementari, contrastanti e sature, per aumentare la brillantezza delle tonalità e creare una composizione visiva aggressiva e carica di tensione artificiale. 
In The Lost and Found (1986) e Insivisible Web (1986) dove l'utilizzo del colore giallo è predominante, abbandona l'ambiente domestico e l'intimità del contesto casalingo.




Tra le tante opere storiche che compongono quest'esposizione c'è la serie True Fiction Two realizzata tra il 1986 e il 2005 (l'allucinata interpretazione dello stile di vita americano) e le spettacolari composizioni Fox Games del 1989 e The Green House del 1980, con i loro ormai iconici animali, volpi rosse e cani viola.



Attraverso il balletto di Shimmering Madness (1998) 


dove le statue e le figure umane condividono lo stesso spazio in una folle coreografia e il visionario picnic di Raining Popcorn (2001) si giunge alle due opere più recenti: Fresh Hybrid (2008) e l'inedito Winter (2018) che rappresentano i primi due capitoli di una serie dedicata alle quattro stagioni (The Project Of The Four Season - in progress) nonché le opere più ambiziose e impegnative dell'artista. Si tratta di opere che riflettono sia sull'arte che sulla vita, tra essere umano e natura, tra realtà e artificio.


Come dice l'artista: "Winter è un ibrido di tecniche e di idee, cristallizzate dalla macchina fotografica il 22 dicembre 2018. In opposizione all'estemporaneità dello scatto, Winter è uno studio sulla perseveranza e sulla persistenza, un paesaggio artificiale che celebra la bellezza e lo smarrimento tipici della stagione più fredda". E' il punto di arrivo di svariati processi digitali appresi da autodidatta. 
Sandy Skoglund ha realizzato un set in cui i fiocchi di neve di metallo sono tagliati digitalmente e le immagini stampate su di loro sono state realizzate digitalmente con inchiostro a raggi ultravioletti
Inoltre l'artista ha creato i gufi e la figura umana "scolpendoli" direttamente su file digitali.


Definire le opere di Sandy Skoglund è difficile: sono sculture oppure installazioni, o fotografie di installazioni e sculture? Nulla di ciò che appare al loro interno viene manipolato tramite photoshop, al contrario tutto si mostra per ciò che realmente è. E' l'artista in persona a creare, dettaglio dopo dettaglio le sue scenografie, facendo sì che ogni elemento dell'ambientazione generale sia un'opera d'arte a sé state: infatti, dopo aver predisposto il set, inserisce le varie sculture realizzate a mano in terracotta e resina dipinta 

ed infine le comparse umane, traducendo così concretamente l'idea di un'opera d'arte totale.
L'artista non realizza immagini al computer perché sostiene ne cambierebbe il significato: "sapere che ciò che guardiamo è esistito davvero, modifica la nostra percezione dell'immagine" ha dichiarato Sandy Skoglund parlando del proprio lavoro.
Sia le sue fotografie che le sue installazioni sono parte delle collezioni dei più importanti musei ed istituzione del mondo: Centre Pompidou, Metropolitan Museum of Art, Whitney Museum, Getty Museum, Maison Européenne de la Photographie ...

The Cocktail Party - 1992


Sandy Skoglund, nata a Weymouth, Massachusetts nel 1946 ha studiato arte e storia dell'arte allo Smith College di Northampton (Massachusetts) dal 1964 al 1968. Ha continuato la sua carriera universitaria nell'Iowa nel 1969, dove ha studiato regia, incisione e grafica, ricevendo il suo Master of Arts nel 1971 ed il suo Master of Arts in pittura nel 1972.
Trasferitasi a New York City nello stesso anno, ha iniziato a lavorare come artista concettuale, occupandosi di produzione artistica ripetitiva e orientata al processo attraverso le tecniche del mark-making (produzione di tracce grafiche) e della fotocopiatura.
Alla fine degli anni Settanta, il desiderio di Sandy Skoglund di documentare le sue idee la fa orientare verso la fotografia.
Questo crescente interesse per la tecnica fotografica si fonde con il suo interesse per la cultura popolare e le strategie di creazione di immagini commerciali, dando vita al lavoro di ricostruzione scenografica per il quale è conosciuta anche oggi.
La sua opera d'arte più conosciuta è probabilmente  Radioattive Cats (gatti radioattivi) del 1980, la foto presenta una monocroma stanza grigia abitata da due anziani personaggi immobili e da una grande quantità di gatti verdi.
Vive attualmente a Jersey City, nel New Jersey.

domenica 11 marzo 2018

Le donne nell'arte: SHIRIN NESHAT





Nata a Qazvin (Iran) nel 1957 dove è cresciuta, Shirin Neshat nel 1974 per ragioni di studio si trasferisce in California dove  rimane in esilio per l'avvento della rivoluzione islamica in Iran. Tra il 1979 e il 1981 frequenta l'Università di Berkeley e  in seguito si stabilisce New York ove tutt'ora risiede e lavora.
Nel 1990 ritorna in patria dove trova la società del suo paese completamente trasformata poiché l'Iran di Reza Pahlevi era diventato una repubblica islamica.
In seguito allo shock culturale personalmente sperimentato, comincia a rappresentare attraverso la fotografia e poi con video e cortometraggi, la condizione della donna in Iran, l'obbligo di velarsi con un chador nero e il rapporto tra i generi nella realtà islamica contemporanea.
Nodi centrali della sua ricerca artisti diventano la condizione della donna islamica, il suo rapporto con il mondo maschile e più in generale il rapporto tra la cultura islamica con quella occidentale .
Il suo lavoro ha ricevuto importanti riconoscimenti, tra i quali il primo premio internazionale alla Biennale di Venezia del 1999 ed oggi è ormai un'affermata fotografa e videoartista.
La sua prima opera "Woman of Allah" iniziata nel 1993 e proseguita sino al 1997,  è costituita da una serie di fotografie in bianco e nero che rappresentano volti, piedi e mani (le uniche parti scoperte del corpo)  cui è accostata un'arma o un fiore. Su queste parti del corpo lasciate scoperte dal velo, l'artista ha scritto frasi in persiano moderno  perché, senza questa aggiunta, considerava queste immagini "nude".


I brani utilizzati sono di scrittici iraniane, metafore del piacere carnale, della sessualità, del peccato. Per il pubblico occidentale i testi sono incomprensibili  ed appaiono come elementi ornamentali o decorativi, mentre in Iran dove possono essere letti, le fotografie non sono mai state esposte.
Nel 1997 comincia a sperimentare il mezzo cinematografico per introdurre elementi narrativi alle sue immagini: nascono così video come "Shadow under the Web" nel quale una donna col chador (la stessa Neshat) corre per le storiche mura della città, in una moschea, in un bazar ed uno stretto vicolo deserto e si sente solo il suo respiro pesante ed affannoso. 
Il chador diventa una forma di protezione per la donna che sembra braccata e che, alla ricerca di se stessa, cerca di fuggire all'esistenza limitata che è costretta a vivere nella società islamica mentre la corsa può essere letta come metafora della vita frenetica tipica della società moderna occidentale. Una rappresentazione di due mondi profondamente diversi costituiti da strutture sociali, modelli di comportamento e di pensiero differenti tra loro.
"Turbolent" del 1998 è un racconto che trae ispirazione dalla legge iraniana che proibisce alla donna di cantare in pubblico.
"Rapture" (1999) tratta della separazione dei generi contrapponendo un gruppo di uomini che eseguono rituali apparentemente assurdi in una fortezza ed un gruppo di donne che vagano nel deserto fino a giungere alla spiaggia sotto la fortezza e spingono una barca in mare, strumento del loro destino, forse di morte, forse di libertà.
Dello stesso anno "Soliloqui" ha come protagonista una donna musulmana che è in costante compromesso tra Oriente ed Occidente, tra esigenze della tradizione e del mondo di oggi.
Mentre "Fervor" del 2000 analizza il rapporto d'amore tra un uomo ed una donna.
Dopo numerosi cortometraggi, Shirin Neshat si è affermata come regista e nel 2009 gli è stato assegnato il Leone d'argento alla 66° Mostra del cinema di Venezia con "Women without men" incisiva analisi dei destini convergenti di quattro donne sullo sfondo della rivoluzione islamica.
I suoi lavori sono stati presentati in numerosi personali in diverse città come Londra, Vienna, Amsterdam, ed anche in Italia al Castello di Rivoli.








"Vedo la mia opera come un excursus pittorico sul femminismo e sull'Iran contemporaneo, una discussione che analizza alcuni miti e alcune realtà per giungere alla conclusione che si tratta di problemi molto più complessi di quanto molti di noi pensino."


lunedì 18 dicembre 2017

Le donne nell'arte: Hannah Höch


Membro del gruppo dadaista berlinese dal 1917 al 1922, Hannah Höch (1889-1978), è cresciuta in una famiglia della media borghesia , nella cittadina di Gotha (Germania).
Nel 1912 si iscrive alla scuola di arti applicate di Charlottenburg, a Berlino con il segreto desiderio di diventare pittrice.
Lo scoppio della prima guerra mondiale nell'agosto del 1914 (si trovava a Colonia dove si era recata per una mostra della WerkbundLega tedesca artigiani) fa vacillare la sua visione del mondo, fino ad allora ancora moderata. 
Tornata a Berlino nel 1915, segue il corso di arte grafica di Emil Orli al Museo statale di arti applicate. Quello stesso anno instaura una relazione con lo scrittore e artista Raoul Haussmann, che durerà sette anni.


Grazie a lui vien introdotta in numerosi circoli artistici, tra cui quello degli espressionisti (che si concentravano intorno alla galleria di Herwarth Walden e alla casa editrice Der Sturm), dei futuristi italiani e infine nel circolo dadaista.
Nonostante le loro pretese anarchico-rivoluzionarie, i dadaisti berlinesi erano una sorta di circolo artistico con un profilo patriarcale e la figura di una donna costituiva un'eccezione.
Hanna fu, infatti, l'unica donna inclusa nella prima Fiera Internazionale Dada, ospitata nella galleria di Otto Burchard a Berlino. Tra le sue opere esposte c'era il fotomontaggio Schnitt mit del Küchenmesser (taglio con il coltello da cucina...) 



che non solo si scagliava contro il ventre pieno di birra della Repubblica di Weimar, come prometteva il titolo, ma denunciava anche la condizione sociale delle donne: una cartina indicava i paesi dell'Europa che avevano dato il voto alle donne, mentre con l'accostamento di corpi maschili e femminili la Höch creava immagini ambigue, sovvertendo così la nozione di identità sessuale. Ancora più evidenti erano le dichiarazioni spiccatamente politiche presenti  nell'opera: in basso a sinistra, insieme a fotografie di folle si trovano teste di alcuni dadaisti, di Marx e Lenin, mentre in alto a destra, sopra le parole "Die antidadastiche Bewegung" (il movimento anti-dadaista) ci sono i ritratti del Kaiser Guglielmo II, del feldmaresciallo Hindenburg e di altri capi militari.
Nella  composizione si trova anche Kathe Kollwitz, la prima donna che nel 1919 fu ammessa all'accademia delle belle arti.
I materiali utilizzati dalla Höch, sia pittorici che testuali, provenivano in parte da opuscoli tecnici e fotografie private, ma soprattutto da riviste illustrate. Si tratta di un mezzo con cui l'artista aveva a che fare non solo nella sua attività artistica ma anche in quella di grafica per il gruppo editoriale Ullstein, per il quale lavorò dal 1916 al 1926.
Per il fotomontaggio "Meine Haussprüche" (I miei motti domestici) del 1922, 



Hanna mise insieme modelli di prodotti artigianali che stava realizzando in quel periodo, fotografie di parti meccaniche, ritratti, disegni di bambini e citazioni da autori molto diversi tra loro come Baader e Hans Arp, Goethe e Nietzsche. L'opera venne realizzata quando i dadaisti berlinesi cominciarono a prendere strade diverse e la Höch e Haussmann si stavano separando.
Nel periodo post-dadaista l'artista  continuò ad ampliare le potenzialità del collage e del fotomontaggio, sia formalmente sia in termini di contenuto. La sua produzione degli anni Venti comprende "Mischling" (Mezza razza) 1924 e serie come "Aus finem ethnographischen Museum" (Da un museo etnografico) 1925-29

 

                                 
che scompongono immagini stereotipate dell'identità etnica e di quella sessuale per ricostruirle con spirito ludico.
Anche se conosciuta prevalentemente per i suoi fotomontaggi, Hanna Höch ha realizzato anche opere stilisticamente diverse come  nature morte ispirate ai canoni della nuova oggettività e quadri sorprendentemente surreali come "Die Braut oder Pandora" (La posa o Pandora).
Negli anni Trenta l'artista fu costretta a subire le crescenti pressioni della politica artistica ufficiale del Terzo Reich, un problema che ha trovato espressione in diverse opere . 

Il collage "Dompteuse" (La domatrice) del 1930, precedente all'avvento del Terzo Reich, non testimonia solo il conflitto privato con la scrittrice olandese Til Brugman con cui la Höch ebbe una lunga relazione, ma anche l'idea di una minaccia politica se si guarda l'abito della domatrice  simile ad un'uniforme.
Molti dei suoi amici artisti lasciarono il paese dopo la presa di potere da parte dei nazisti, ma Hanna, pur essendo stata bollata come "culturalmente bolscevica" e nonostante il divieto di esporre, rimase in Germania in un sorta di emarginazione interna.
Rischiando la vita, nella sua casa di Berlino, realizzò l'archivio dell'opera dei dadaisti, che rese possibile la scoperta di questo gruppo dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Benché fin dal 1946 la Höch avesse ricominciato ad esporre nelle gallerie e fosse stata inclusa in diverse retrospettive internazionali sul dadaismo, solo dopo la grande mostra tenutasi all'Accademia di Belle Arti di Berlino nel 1971, la sua opera diventò oggetto di un'analisi e di un interesse più attenti. Lei però continuò ad essere ridotta al ruolo di compagna di Raoul Haussmann e vista come "la bella addormentata del dadaismo" come la definì il critico d'arte Heinz Ohff o "l'indispensabile operaia dei dadaisti" come la soprannominò Hans Richter.
Fu solo a partire dagli anni Ottanta che la storia dell'arte femminista pose una visione sottile e attenta della complessa e impegnata opera di Hanna Höch.






"Mi piacerebbe oltrepassare i confini stabiliti che noi, uomini sicuri di noi stessi, amiamo tracciare intorno a tutto ciò che possiamo raggiungere".