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Visualizzazione post con etichetta arte contemporanea. Mostra tutti i post
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domenica 12 gennaio 2020

CHRISTIAN BOLTANSKI

Christian Boltanski (Parigi 1944) è un artista francese affermato a livello internazionale che, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, ha sviluppato una ricerca incentrata sul senso dell'esistenza dell' uomo, sulla persistenza e sull'evanescenza della memoria collettiva ed individuale, sulla dimensione effimera dello scorrere del tempo e sulla storia conosciuta o anonima.
Come tutti gli artisti concettuali Boltanski realizza lavori che cercano di attivare la riflessione negli spettatori, lavora sulla memoria e sottopone il passato ad un attento esame, ricostruendo testimonianze e classificandole come reperti. In lui è costante lo sforzo di ricordare e documentare il vissuto e la quotidianità attraverso forme di catalogazione.
All'inizio delle sua carriera ha cercato di custodire la propria vita inserendone i reperti dentro scatole di biscotti o disponendole in vetrine che mostrano i documenti, gli attestati di quanto gli è accaduto, lettere d'amore insieme a fotografie, carte burocratiche e di lavoro.


Non potendo però ricorrere al prelievo diretto di tutti i documenti li ha ricostruiti per poi fotografarli. 
Così facendo si propone di trasformare la propria autobiografia "in quella degli altri che vi si riconoscono coi propri ricordi. Questa è la funzione dell'arte, l'artista diventa specchio e desiderio degli altri, diventa gli altri, non ha più esistenza propria" afferma, arrivando alla conclusione che "non si può più creare che scomparendo".
Riserva di svizzeri morti 
Negli anni successivi allarga la sua sfera d'interesse fino ad includere nelle opere reperti tratti dalla memoria collettiva e dalle grandi tragedie dell'umanità, costruendo veri e propri sacrari della memoria che prendono il nome di Riserve, Reliquiari  o Monumenti - ne sono un esempio Riserva di svizzeri morti del 1989 (contenente centinaia di foto di defunti recuperate dagli annunci mortuari di giornali elvetici); Reliquiario del 1990 (fotografie, scatole di biscotti, lampade e fili elettrici)  


Reliquiario
Terril Grand-Hornu del 2015 (un monumentale accumulo di vestiti neri di tessuto illuminato da una lampada)

Terril Grand-Hornu 
Si tratta di una monumentalizzazione della memoria della vastissima schiera di individui anonimi dimenticati dalla storia e dalla società.
Les Tombeaux - 1996
Boltanski scruta la vita delle persone e ciò che rimane dopo la loro morte non per farne riemergere il ricordo ma per mettere in evidenza la loro assenza, la loro scomparsa.
Boltanski ha elaborato anche varie altre suggestive e poetiche modalità di visualizzazione di fantasmi di esistenze anonime. Tra queste si possono citare Les Regards (2011) immagini semitrasparenti di volti fluttuanti stampate su fini tessuti che si muovono nell'ambiente

Les Regards 
Crépuscule
Crépuscule (2015) installazione a pavimento formata da un intrico di fili elettrici con piccole lampadine che brillano nel buio come struggenti anime vaganti. Ogni giorno in cui l'opera viene esposta una lampadina si spegne e l'opera che all'inizio è sfavillante, va progressivamente scurendosi facendoci riflettere sul passaggio del tempo e sulla precarietà dell'esistenza.
Di straordinaria intensità è il progetto in progress, iniziato negli anni Novanta, che si intitola Les archives du cœur, un archivio di registrazioni di battiti di cuore di innumerevoli individui, custodito in Giappone nell'isola Teshima, e presentato nelle varie mostre in forma di installazione sonora, come per esempio Cœur el 2006, una semplice ampolla pulsante collocata nel buio.
Boltanski realizza anche installazioni video come l'opera Animatas del 2014 presentato alla Biennale di Venezia nel 2015: nel cielo del deserto di Atacama, sulla costa cilena del Pacifico, c'è una distesa di campanelle giapponesi che oscillano dall'alto di lunghi steli metallici. La disposizione di queste 850 campanelle, collocate a formare una costellazione della buona fortuna, rappresenta la posizione delle stelle nell'emisfero meridionale la notte della nascita di Christina Boltanski (6 settembre 1944).
L'opera è stata realizzata con l'aiuto della popolazione di una comunità indigena ed è un riferimento agli altari dedicati ai morti e collocati lungo le strade in alcune zone del Cile. Per sentire il mormorio di questo grande ma delicato strumento che suona al minimo alito di vento, i visitatori della videoinstallazione che documenta l'opera si trovano immersi nel cuore del paesaggio cileno grazie a una proiezione grande quasi quanto la sala.
Attraverso Animatas, la delicata "musica del caso" , l'artista gioca ancora una volta con la memoria ed il ricordo, la storia personale e l'invocazione cosmica. L'opera di Boltanski, contrassegnata dalla ricerca di universalità e poesia, esplora le differenze tra autobiografia e auto-fiction, memoria e oblio,  individuale e collettivo ed ancora una volta tra vita e morte.


Al Centre Pompidou di Parigi fino al 16 marzo 2020  è visitabile la mostra "Faire son temps", non una retrospettiva ma un modo per approfondire aspetti della ricerca dell'artista dal punto di vista tematico e da quello delle invenzioni formali ed installative. Da non perdere...




















venerdì 10 gennaio 2020

Michael Rakowitz. Legatura imperfetta





Fino al 19 gennaio 2019 il Castello di Rivoli Museo d'Arte Contemporanea presenta la prima retrospettiva europea dedicata all'artista iracheno-americano Michael Rakowitz (1973 Great Neck - NY).
La mostra presenta in anteprima le più importanti opere realizzate dall'artista in oltre vent'anni della sua attività ispirate all'architettura, all'archeologia, alla cucina e alla geopolitica dall'antichità ad oggi.
Le opere narrano le grandi trasformazioni storiche causate da guerre e altri traumi, denunciando le contraddizioni della globalizzazione.
Rakowits crea sculture, disegni, installazioni, video oltre che progetti collaborativi e perforativi.





venerdì 9 agosto 2019

PROGETTO DIOGENE - sistemi d'arte non convenzionali

Percorrendo corso Regio Parco per andare verso il cimitero Monumentale di Torino vi sarete sicuramente imbattuti in un tram color argento che da molto tempo staziona nella rotonda corso Regio Parco/corso Verona, 

ecco svelato il mistero: è la sede del Progetto Diogene.
Nato nel 2007 come gruppo informale di artisti, un insieme di identità artistiche autonome che hanno scelto di lavorare insieme alla costruzione di un luogo di riflessione, ascolto e scambio sui temi e le modalità della pratica artistica, nel 2008 diventa ufficialmente l'Associazione Culturale Diogene.
Uno dei primi riferimenti del gruppo è stato Diogene di Sinope al quale il gruppo di artisti si è ispirato, riprendendone in particolare l'ideale rapporto con la realtà legato ad una riduzione del superfluo allo stretto necessario, l'autonomia di pensiero, l'attenta osservazione del mondo circostante, il cosmopolitismo, l'edificazione di una consapevolezza sempre vigile, nonché la capacità di far coesistere la teoria con la prassi.
L'associazione opera nell'ambito dell'arte contemporanea sviluppando progetti volti ad approfondire la riflessione circa la produzione artistica contemporanea, i suoi temi e modalità operative e il ruolo dell'artista nella società presente.
Attualmente l'organico vede come soci operativi: Francesco Ariaudo, Alice Benessia, Andrea Caretto, Manuele Cerutti, Giulia Gallo, Luca Luciano, Silvia Margaria, Enrico Partengo, Raffaella Spagna, Elena Tortia. 
Nel corso degli anni hanno fatto parte del Progetto Diogene: Donato Canosa, Ludovica Carbotta, Sara Enrico, Davide Gennarino, Valerio Manghi, Luca Pozzi, Laura Pugno, Andrea Respino, Monica Tavernieti, Cosimo Veneziano.
Dopo una prima fase di attività "nomade" (2007-2008), svolta operando in spazi interstiziali presenti nel tessuto urbano,  a partire dal 2009 Progetto Diogene si è dotato di una sede più stabile, una carrozza dismessa di un tram della GTT (Gruppo Torinese Trasporti), opportunamente ristrutturata e posizionata nello spazio pubblico, al centro di una rotonda stradale tra corso Regio Parco e corso Verona a Torino.
La presenza di una sede fissa ha consentito al gruppo di artisti di sviluppare una programmazione ricca e differenziata.
Il progetto di residenza internazionale per artisti Diogene_Bivaccourbano, primo progetto portato avanti con continuità dal gruppo Diogene, si è evoluto sino a trasformarsi, a partire dal 2013, in una vera borsa di ricerca per artisti (Diogene_bivaccourbano_R) con l'intenzione di dare enfasi e sostenere non tanto la produzione artistica in sé quanto il processo di ricerca.
Alla residenza per artisti Bivaccourbano sono stati affiancati, nel tempo, altri progetti che hanno permesso di ampliare lo spettro di azione e di indagine, coinvolgendo un numero sempre più ampio di persone, sia a livello locale che nazionale che internazionale: programmi formativi sperimentali per artisti e studenti (Solid Void, Diogene_Lab), cicli di incontri, conferenze e mostre con artisti e ricercatori (Collecting People, The Unseen, SErie Inversa), iniziative editoriali (Edizioni Diogene).
Ultimamente le attività dell'associazione hanno subito una pausa dovuta a una metamorfosi del gruppo e ad un suo riassestamento che ha portato i membri alla decisione di fermarsi per riflettere sull'identità e sulle visioni dell'associazione, con l'intento di individuare nuovi obiettivi mantenendo la stessa autonomia di pensiero e di azione. 
Alla ricerca di nuovi sistemi di sostegno, pur rimanendo coerenti con gli ideali che hanno sempre animato l'associazione, nel mese aprile 2019 il gruppo ha indetto una raccolta fondi per raccogliere risorse che permetteranno di sostenere le attività di Progetto Diogene.
Attendiamo con impazienza le novità che saranno proposte...


(articolo realizzato con l'ausilio dell'opuscolo Diogene_Incanto distribuito in occasione della raccolta fondi a sostegno del Progetto Diogene presso Fondazione Merz - 8 aprile 2019)

martedì 11 giugno 2019

Le donne nell'arte: KIKI SMITH

Figlia di Tony Smith, sculture ed esponente del movimento minimalista e di Jane Smith cantante lirica, Kiki Smith (Norimberga 1954) cresce in un ambiente "artistico" e si confronta precocemente con il mondo dell'arte e i diversi materiali che la circondano.
Ancora bambina, insieme alle sorelle, prepara i modelli di carta da cui il padre elaborava le sue sculture, poi durante l'adolescenza inizia ad interessarsi all'arte e all'artigianato popolare, diventando anche una fervente ammiratrice di Frida Kahlo.
Dopo aver vissuto un anno a San Francisco come membro del gruppo rock dei Tubes, nel 1974 si reca nel Connecticut dove per tre trimestri frequenta l'Hartford School of Art.
Nel 1976 si trasferisce a New York dove entra a far parte del gruppo di artisti Collaborative Projects Inc. (Colab) il cui primario interesse era trasformare in maniera creativa oggetti d'uso comune, che venivano rivenduti nel negozio A More Shop.
Nel 1979 , l'anno precedente alla morte del padre, riceve in dono da quest'ultimo Gray's Anatomy (lo stesso che appassionò J.M. Basquiat). Copiando gli schemi di questo manuale di anatomia del XIX secolo, all'inizio degli anni novanta inaugura il suo lavoro artistico incentrato sulla rappresentazione del corpo umano anche se già nel 1980 aveva esposto per la prima volta i suoi grandi disegni anatomici in una mostra collettiva.
"Il corpo - dice - è il nostro comune denominatore e il teatro dei nostri piaceri e dei nostri dolori. Attraverso esso voglio esprimere chi siamo, come viviamo e come muoriamo".
Harbor (Porto) 2015
arazzo in cotone Jacquard
Benché la scultura abbia assunto un ruolo preponderante nella sua pratica, il disegno rimane il fulcro della sua opera.
Figure-sentinella a grandezza naturale popolano l'universo di Kiki Smith, che attinge alle leggende folcloristiche, ai miti o ai racconti fantastici, raccogliendo gli archetipi che le sono cari e rimandando alla sua condizione di donna artista: il bambino selvaggio, la ragazza, l'animale.
Sempre a caccia di idee e possibilità di sperimentazione ha utilizzato materiali vari (vetro, porcellana, carta, argilla e bronzo) per rappresentare il corpo come sistema, analizzando i suoi significati e valori simbolici.
Al centro della sua ricerca artistica è la condizione umana (in particolare della donna) e la denuncia della sofferenza, del male, della sopraffazione che  agli esordi della sua carriera aveva espresso con un linguaggio graffiante e provocatorio.
Ne sono un esempio Shields del 1988 opera nella quale il ventre di una donna incinta è rappresentato come scudo, oppure Second Choise del 1987 dove vari organi sono disposti come frutti in una ciotola di ceramica per rappresentare una reazione al commercio di organi.




Le fonti di ispirazione delle sue opere sono eterogenee: antiche opere d'arte come l'altare di Isenheim di Grünewald, figure bibliche o mitiche come Maria Maddalena o Lilith 








ma anche favole e sogni, cosmo e stelle.
Nell'ambito della mostra Paradise Cage che si tenne a Museum of Contemporary Art di Los Angeles nel 1996, insieme ad uno Studio di architetti, realizzò uno scenario celeste di grande impatto sotto il quale comparivano 28 animali in vetro che rimandavano sia all'Arca di Noè che ad altre leggende.
Protagonista della  sua recente produzione artistica, frutto di un profondo rivolgimento espressivo e poetico è la natura vista come contenitore e forza generatrice.
Fortune 2014
Animali, vegetazione, figure umane, cieli e astri sono parte di un mondo denso di misteri e simboli, sospeso tra favola e mito dove le gerarchie sono abolite.
L'occhio dell'artista indaga tutto con curiosità e tenerezza, protegge le sue creature fragili e innocenti, crea un racconto nuovo in cui il pericolo e la minaccia rimangono indeboliti da una legge naturale superiore e potente.
L'energia rivoluzionaria che oggi anima l'anima di Kiki Smith sta nella pietosa universale, metafora della capacità tutta femminile di sanare le lacerazioni di un mondo spesso brutale e dissonante.

Alcune opere esposte alla mostra What i saw in the road - Palazzo Pitti 2019










giovedì 24 gennaio 2019

SANDY SKOGLUND. VISIONI IBRIDE dal 24/1/2019 al 24/3/2019




Curata da Germano Celant la mostra "Sandy Skoglund Visioni Ibride" riunisce lavori che vanno dagli esordi nei primi anni Settanta all'ancora inedita opera Winter alla quale l'artista ha lavorato per oltre dieci anni.
Un'anteprima mondiale che conferma l'unicità della sua ricerca e del suo linguaggio che si è formato in pieno clima concettuale per poi evolversi in un immaginario sospeso tra sogno e realtà, carico di una straordinaria potenza evocativa.
Attraverso oltre cento lavori tra fotografie (quasi tutte di grande formato) e sculture, la mostra permette di seguire il percorso dell'artista partendo dalle prime fotografie prodotte a metà degli anni Settanta come la serie Motels (1974) realizzata durante un viaggio seguendo un vecchio itinerario delle vacanze, sulla statale 1 da Boston a Portland nell'estate del 1974



e le opere dove già emergono i temi caratteristici dell'interno domestico e della sua trasformazione in luogo di apparizioni tra comico ed inquietante,

Hangers - 1979
fino alle grandi composizioni dei primi anni Ottanta, che hanno dato all'artista fama internazionale come Radioattive cast" del 1980 e Revenge of the goldfish del 1981, autentiche icone del periodo, rivisitazioni surreali e stranianti di ambienti famigliari dai colori improbabili, invasi pesci volanti.


Revenge of the goldfish - 1981
Le immagini nascono sempre dalla costruzione di un set molto complesso che l'artista poi fotografa



un procedimento che ben spiega la rarefatta produzione dell'artista e la peculiarità del suo percorso visuale, che è installativo, scultoreo  e fotografico; tutti elementi che si trovano nella mostra, dove alcune sculture rimandano alle fotografie e viceversa.


Una componente importante del linguaggio immaginario della Skoglund è il colore, usato sina dalla fine degli anni Settanta per realizzare fotografie enigmatiche efficaci e capaci di comunicare la densità e l'energia di una situazione estetica, connessa alla nuova espressività dei media. L'artista impiega tinte complementari, contrastanti e sature, per aumentare la brillantezza delle tonalità e creare una composizione visiva aggressiva e carica di tensione artificiale. 
In The Lost and Found (1986) e Insivisible Web (1986) dove l'utilizzo del colore giallo è predominante, abbandona l'ambiente domestico e l'intimità del contesto casalingo.




Tra le tante opere storiche che compongono quest'esposizione c'è la serie True Fiction Two realizzata tra il 1986 e il 2005 (l'allucinata interpretazione dello stile di vita americano) e le spettacolari composizioni Fox Games del 1989 e The Green House del 1980, con i loro ormai iconici animali, volpi rosse e cani viola.



Attraverso il balletto di Shimmering Madness (1998) 


dove le statue e le figure umane condividono lo stesso spazio in una folle coreografia e il visionario picnic di Raining Popcorn (2001) si giunge alle due opere più recenti: Fresh Hybrid (2008) e l'inedito Winter (2018) che rappresentano i primi due capitoli di una serie dedicata alle quattro stagioni (The Project Of The Four Season - in progress) nonché le opere più ambiziose e impegnative dell'artista. Si tratta di opere che riflettono sia sull'arte che sulla vita, tra essere umano e natura, tra realtà e artificio.


Come dice l'artista: "Winter è un ibrido di tecniche e di idee, cristallizzate dalla macchina fotografica il 22 dicembre 2018. In opposizione all'estemporaneità dello scatto, Winter è uno studio sulla perseveranza e sulla persistenza, un paesaggio artificiale che celebra la bellezza e lo smarrimento tipici della stagione più fredda". E' il punto di arrivo di svariati processi digitali appresi da autodidatta. 
Sandy Skoglund ha realizzato un set in cui i fiocchi di neve di metallo sono tagliati digitalmente e le immagini stampate su di loro sono state realizzate digitalmente con inchiostro a raggi ultravioletti
Inoltre l'artista ha creato i gufi e la figura umana "scolpendoli" direttamente su file digitali.


Definire le opere di Sandy Skoglund è difficile: sono sculture oppure installazioni, o fotografie di installazioni e sculture? Nulla di ciò che appare al loro interno viene manipolato tramite photoshop, al contrario tutto si mostra per ciò che realmente è. E' l'artista in persona a creare, dettaglio dopo dettaglio le sue scenografie, facendo sì che ogni elemento dell'ambientazione generale sia un'opera d'arte a sé state: infatti, dopo aver predisposto il set, inserisce le varie sculture realizzate a mano in terracotta e resina dipinta 

ed infine le comparse umane, traducendo così concretamente l'idea di un'opera d'arte totale.
L'artista non realizza immagini al computer perché sostiene ne cambierebbe il significato: "sapere che ciò che guardiamo è esistito davvero, modifica la nostra percezione dell'immagine" ha dichiarato Sandy Skoglund parlando del proprio lavoro.
Sia le sue fotografie che le sue installazioni sono parte delle collezioni dei più importanti musei ed istituzione del mondo: Centre Pompidou, Metropolitan Museum of Art, Whitney Museum, Getty Museum, Maison Européenne de la Photographie ...

The Cocktail Party - 1992


Sandy Skoglund, nata a Weymouth, Massachusetts nel 1946 ha studiato arte e storia dell'arte allo Smith College di Northampton (Massachusetts) dal 1964 al 1968. Ha continuato la sua carriera universitaria nell'Iowa nel 1969, dove ha studiato regia, incisione e grafica, ricevendo il suo Master of Arts nel 1971 ed il suo Master of Arts in pittura nel 1972.
Trasferitasi a New York City nello stesso anno, ha iniziato a lavorare come artista concettuale, occupandosi di produzione artistica ripetitiva e orientata al processo attraverso le tecniche del mark-making (produzione di tracce grafiche) e della fotocopiatura.
Alla fine degli anni Settanta, il desiderio di Sandy Skoglund di documentare le sue idee la fa orientare verso la fotografia.
Questo crescente interesse per la tecnica fotografica si fonde con il suo interesse per la cultura popolare e le strategie di creazione di immagini commerciali, dando vita al lavoro di ricostruzione scenografica per il quale è conosciuta anche oggi.
La sua opera d'arte più conosciuta è probabilmente  Radioattive Cats (gatti radioattivi) del 1980, la foto presenta una monocroma stanza grigia abitata da due anziani personaggi immobili e da una grande quantità di gatti verdi.
Vive attualmente a Jersey City, nel New Jersey.

venerdì 7 dicembre 2018

Le donne nell'arte: Marina Abramović

Marina Abramović è una delle   personalità  più celebri 
e controverse dell'arte contemporanea. 
Nata a Belgrado nel 1946 l'artista serba è attiva nell'ambito della body-art e della performance; la sua ricerca l'ha portata ad indagare i limiti fisici e mentali della propria persona, creando produzioni che col tempo sono divenute più complesse grazie al contatto con culture diverse come quelle incontrate nei suoi lunghi viaggi in India, Australia, Tibet e Cina.
Marina cresce nella Jugoslavia comunista, entrambi i genitori sono partigiani della seconda guerra mondiale: suo padre Vojin Abramović era un comandate, riconosciuto eroe nazionale dopo la guerra; la madre Danica, maggiore dell'esercito, alla metà degli anni Sessanta viene nominata direttore del Museo della Rivoluzione e Arte di Belgrado.
Marina si forma all'Accademia delle Belle Arti di Belgrado dedicandosi alla pittura.


Truck Accident  - 1963
Cerca però altri strumenti di espressione e frequenta lo Studenti Kulturni Centar (SKC) di Belgrado, istituito da Tito nel 1968, dove ai giovani artisti è permesso sperimentare.



Nel suo percorso formativo la Abramović è influenzata da artisti come Chris Buden, Vito Acconci e Joseph Buys che operano al limite fra performance, film e oggetto, in una stagione, quella degli anni Settanta, favorevole a questo genere di sperimentazioni.
Quando scopre la performance, abbandona tutte le altre forme di espressione ed inizia a lavorare utilizzando il proprio corpo, esponendosi al pericolo e al dolore come via per ampliare le proprie percezioni e il proprio linguaggio artistico.
Nella serie Rhythm (1973-1974) eseguita tra Italia e Jugoslavia, si sottopone a dure prove di resistenza fisica e psicologica: alcuni lavori consistono in azioni(Rhythm 2), altri prevedono  l'utilizzando di oggetti pericolosi (Rhythm 10



o simboli ricorrenti come la stella a cinque punte (Rhythm 5) 



altri evocano un'atmosfera di martirio (Rhythm 0).
La performance Rhythm 0 realizzata a Napoli nel 1974 ha inizialmente avuto come protagonisti 72 oggetti disposti su un tavolo in una sala di una galleria. 



Questi utensili (oggetti di piacere come piume, zucchero, bottiglie, scarpe ecc., oggetti di dolore come fruste, catene, martelli ecc. e oggetti di morte come lamette e una pistola) potevano essere utilizzati dalle persone presenti per interagire con l'artista ed in particolar modo con il suo corpo. 
La Abramović  in questa performance rimase in piedi per sei ore a disposizione degli spettatori che erano autorizzati a farle ciò che volevano dal baciarla e accarezzarla al ferirla o denudarla e qualsiasi cosa fosse successa sarebbe stata sotto la responsabilità dell'artista.



Mentre in un primo momento regnarono perplessità ed imbarazzo, successivamente gli atteggiamenti degli spettatori verso l'artista mutarono diventando anche molto violenti ed il corpo dell' Abramović fu gravemente segnato.
Scopo dell'artista era mettere  a disposizione il suo corpo per rendere protagonista il pubblico. Si trattava di evidenziare le sue capacità di resistenza fisica e mentale e testimoniare gli istinti più brutali dell'essere umano che, una volta vinta la barriera della formalità, prevalgono e mettono a nudo la natura dell'uomo svelandone ogni aspetto.
La serie Freeing,  realizzata nel 1975 prima di lasciare Belgrado, costituisce un rito di passaggio con cui Marina Abramović si affranca dalle proprie origini : un esorcismo in cui libera corpo e mente dal legame con il luogo, mettendo alla prova la sua capacità di resistenza attraverso la ripetizione di parole, suoni e gesti portati fino all'esaurimento. Lo svuotamento diventa metodo: balla fino a cadere esausta, recita parole fino che la mente è sgombrata, grida fino a perdere la voce.


Nel 1975 lascia la Jugoslavia e si stabilisce ad Amsterdam dove fino al 1988 lavora con il suo compagno, l'artista tedesco Ulay (Frank Uwe Laysipen). E' l'inizio di una vita insieme, tanto simbiotica che i due artisti si descrivono come un solo organismo.
Condividono l'idea di potersi spingere al limite estremo usando il corpo, il tempo e il suono come materiali per la loro arte.
Una delle loro performance più nota è Imponderabilia, in cui i due nel giugno 1977 rimasero completamente nudi, uno di fronte all'altro, all'ingresso della Galleria D'Arte Moderna di Bologna come fossero gli stipiti della porta: per entrare nel museo il pubblico doveva passare attraverso lo stretto spazio tra di loro, scegliendo verso chi voltarsi. Programmata per sei ore, la performance venne interrotta dalla polizia dopo novanta minuti per oltraggio al pudore.



La dualità e la simbiosi  è ben rappresentata dalla serie Relation opera estrema ai limiti delle resistenza fisica. 




Nelle loro performance vibranti e ipnotiche i due artisti condividevano una profonda capacità di sopportazione e la comune idea di spingere la loro pratica all'estremo, scandita da pause, respiri, colpi, urla, incontro di corpi.



Documentavano tutto con estrema precisione e rispettavano la regola di non ripetere mai una performance.
Il loro addio però si celebra nel 1988 con un'ultima performance insieme. Si tratta di The Lovers che si è svolta sulla Grande Muraglia, sotto la quale, secondo la tradizione cinese, si muovono draghi giganteschi  la cui energia viene assorbita da chi la percorre attraverso la pianta dei piedi .
Alle 10.47 del 30 marzo 1988 (anno del Drago) Marina parte dal passo Shanghai e comincia a camminare verso Ovest, mentre Ulay si muove dal deserto dei Gobi procedendo verso Est. 



Dopo novanta giorni i due si incontrano a metà della Grande Muraglia avendo percorso ciascuno 2.500 chilometri: si abbracciano e si dicono addio ponendo fine alla loro 



collaborazione artistica e proseguono il loro camino in solitaria.
Marina prosegue da sola il suo percorso artistico di sperimentazione, di profonda riflessione e di confronto con il pubblico: è del 1995 la serie di video-performance Cleaning the Mirror in cui Marina Abramović interagisce e si confronta con uno scheletro umano, inteso come proprio doppio, in un rispecchiamento tra vita e morte che è memore di rituali in uso presso i monaci tibetani.



In Luminosity  del 1997 l'artista resta seduta, nuda, su un seggiolino di bicicletta fissato in alto sulla parete, bilanciandosi con movimenti delle braccia e delle gambe, circondata da una luce fortissima . La posizione precaria, la nudità, l'esposizione agli sguardi la rendono vulnerabile. Questa performance, come afferma Marina Abramović è "un lavoro sulla solitudine, sul dolore e sull'elevazione spirituale, sulla luminosità e sulla qualità trascendentale dell'essere umano" oltre che sullo scambio di energia tra la performer e chi fissa lo sguardo su di lei.
Nel 1997 vince il Leone d'Oro alla Biennale di enezia con l'esecuzione della performance Balkan Baroque metafora contro tutte le guerre ed in particolare con riferimento alle devastanti guerre balcaniche degli anni Novanta.
L'artista era stata invitata a rappresentare la Serbia e il Montenegro nel padiglione jugoslavo della Biennale di Venezia nel 1977, ma si ritira per controversie sul soggetto dell'opera.
Viene quindi invitata dal curatore Germano Celant ad allestire Balkan Baroque  in un sottoscala. Critica e pubblico sono scioccati ma la performance ottiene ampi riconoscimenti, tra i quali proprio il Leone d'Oro. 
Nella performance la Abramović era seduta su una catasta di ossa di vacca: sotto cinquecento pulite sopra duemila sanguinolente con attaccate carne e cartilagini. Per quattro giorni, per sette ore al giorno sfregava le ossa  fino a farle diventare pulite, era come se stesse su un campo di battaglia e le ossa fossero i cadaveri dei soldati, l'odore era nauseante e i visitatori entravano in fila ed osservavano disgustati dal lezzo ma ipnotizzati dalla spettacolo. 



The Hero realizzato nel 2001 è un'opera legata alla memoria, alla sua terra d'origine, oltre che alle complesse dinamiche familiari. E' realizzato dall'artista in seguito alla perdita del padre, eroe partigiano.
Nel video Marina Abramović si rappresenta come il padre su un cavallo bianco mentre si sente l'inno della Jugoslavia comunista.




Dopo aver lavorato in produzioni teatrali autobiografiche, nel 2002 torna alla performance dal vivo. In The House with the Ocean View, resta in isolamento, silenzio e digiuno per dodici giorni, sempre sotto gli occhi del pubblico, in tre piccoli ambienti, vestita con casacca e pantaloni rigorosamente identici ma di colore diverso a seconda del giorno della settimana , bevendo solo ed esclusivamente acqua e 




cercando di stabilire con i visitatori uno scambio di energia molto intenso, fondamentale per la riuscita della performance.
Il suo interesse per tematiche di meditazione e trascendenza avevano già trovato espressione nei Transitori Objects realizzati tra il 1995 e il 2015 con materiali dotati di una particolare carica energetica.




The Artist is Present del 2010 è diventata un classico della Performance Art: durante tre mesi dell'esposizione al MoMA di New York  ogni giorno Marina Abramović ha fissato negli occhi ogni spettatore che decideva di sedersi di fronte a lei.
L'artista la considera la performance più radicale della sua vita durante la quale è rimasta per sette ore al giorno seduta a fissare dentro gli occhi i visitatori, 736 ore e 30 minuti muta ed immobile, senza mangiare, bere o andare alla toilette.




La partecipazione del pubblico ha assunto sempre maggiore importanza nei lavori di Marina Abramović, che attraverso esercizi quali Counting the Rice, invita il pubblico a espandere la percezione della "non esistenza del tempo" . I partecipanti (volontari del pubblico) sono invitati a lasciare i loro cellulari in un armadietto e poi ad indossare una cuffia che li isola dall'ambiente. Leggendo le istruzioni sono invitati a sedersi ad un tavolo su cui sono depositati chicchi di riso che devono separare e contare: il tempo trascorre ma l'isolamento e la concentrazione non permettono di percepirlo, un'esercizio psico-fisico che l'Abramovic nel 2014 ha utilizzato per acquisire concentrazione e predisporre corpo e mente alla performance art.


Counting the Rice - Palazzo Strozzi
Per mantenere vive le sue opere, che esisterebbero solo come documentazione d'archivio e tutelare la propria eredità artistica, Marina Abramović usa la re-performance come metodo. Attraverso il Marina Abramović  Institute for the Preservation of Performance Art (MAI) e con il cosiddetto "Abramović Method", sviluppato nel corso della sua carriera come pratica fisica e mentale per realizzare una performance, l'artista ha posto le basi per oltrepassare il limite effimero della temporalità delle sue opere e reinventare l'idea stessa di performance del XXI secolo.
Le opere non sono più solo documentazione d'archivio, ma acquistano una nuova vita e mutano a seconda del performer, esattamente come avviene per un brano musicale che cambia profondamente da un interprete all'altro.


                           Re-performance di Imponderabilia a Palazzo Strozzi 

L'opera deve avere vita propria e sopravvivere all'autore.

Fino al 20 gennaio 2019 Palazzo Strozzi a Firenze dedica a  Marina Abramović la più grande retrospettiva italiana. La mostra riunisce oltre cento opere (video, fotografie, dipinti, oggetti, installazioni) offrendo una panoramica sulla sua carriera, dagli anni Settanta agli anni Duemila. 
Durante la mostra è anche possibile assistere alla riesecuzione dal vivo di alcune delle  celebri performance che Marina Abramović ha fatto nella sua carriera artistica, a  realizzarle un gruppo di performer appositamente selezionati  e formati per la mostra di Palazzo Strozzi da Lynsey Peisinger, stretta collaboratrice di Marina Abramović.


Due visitatori alla postazione della re-performance "The Artist is Present" a Palazzo Strozzi