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venerdì 27 novembre 2015

Le donne nell'arte: HELEN FRANKENTHALER


Se prendiamo in esame l'Espressionismo Astratto notiamo che alle donne è stato riservato fin dall'inizio un ruolo marginale sia da parte dei colleghi artisti che da parte della critica.
Se scorriamo l'indice dei nomi delle antologie di recensioni e dei saggi di critica d'arte dedicati a quest'epoca, è difficile trovare riferimenti alle loro opere, anche se in realtà artiste come Hedda Sterne, Elaine de Kooning e Lee Krasner, rappresentanti femminili della prima generazione dell'Espressionismo Astratto, esposero in modo continuativo nelle gallerie di New York sin dagli anni '40 e presero parte  a collettive  di livello internazionale come la Biennale di Venezia del 1956.
Nella percezione del pubblico, le pittrici restavano in secondo piano rispetto ai colleghi uomini; ciò vale soprattutto per chi, come Elaine de Kooning (moglie di Willem de Kooning)
o Lee Krasner (moglie di Jackson Pollock)
sosteneva la carriera del patner e veniva ridotta al ruolo di testimone dei processi produttivi del marito.
Solo alla metà degli anni '50, quanto la fase di formazione dell'Espressionismo Astratto poté considerarsi conclusa e la corrente ebbe conquistato una posizione indiscussa nella storia dell'arte e uno stabile valore di mercato, giunse il momento di prendere in esame, retrospettivamente, il contributo che le avevano dato le pittrici e di esporre la loro produzione artistica .
In questo contesto, un ruolo speciale è quello giocato da Helen Frankenthaler. E' forse l'unica artista della seconda generazione degli espressionisti astratti cui è stata riconosciuta un'influenza determinante sui successivi sviluppi della pittura astratta.
La Frankenthaler nata a New York nel 1928 iniziò a studiare pittura nel 1946, dopo aver lasciato la scuola. Quando prese parte ad una collettiva allestita nel 1950 presso la galleria Seligman di New York, invitò tra gli altri l'influente critico d'arte Clement Greenberg, che presto divenne uno dei suoi più intimi amici e sostenitori.
Nel suo dipinto Mountains and Sea realizzato il 26 ottobre 1952 utilizzò per la prima volta la sua caratteristica "tecnica del colorare".
Una tela non preparata costituiva il fondo pittorico, i colori a olio molto diluiti con trementina o cherosene penetrava nella trama della tela e produceva un effetto simile a quello dell'acquarello. Infatti l'artista aveva dipinto in precedenza utilizzando la tecnica dell'acquarello su carta, come si vede nel quadro Great Meadows del 1951
Con questa tecnica il legame tra colore e tela metteva in risalto il carattere piano del mezzo espressivo pittorico.
Seguendo l'esempio di Pollock per realizzare Mountains and Sea (realizzato in un loft senza finestre e sulla base dei ricordi conservati dall'artista dopo un viaggio in Nuova Scozia) Helen stese la tela sul pavimento e poi versò il colore da diversi contenitori senza toccarlo direttamente, in seguito lo spalmò frizionando la trama della tela con una spugna. 
Pur avendo abbracciato questo metodo di lavoro, allora assai innovativo, ispirata dalle opere di Pollock che poté ammirare nel 1951 presso la galleria Betty Parson e presso l'atelier dell'artista a The Spring, la Frankenthaler teneva a sottolineare le differenze tra il suo approccio alla pittura e quello del suo ispiratore: "io non desideravo copiare Pollock, non volevo prendere un bastone e poi immergerlo in un contenitore con la vernice. Avevo bisogno di qualcosa di più liquido, acquoso, diluito. Per tutta la vita mi sono sentita stratta dall'acqua e dalla trasparenza. Io amo l'acqua, amo nuotarvi dentro, contemplare il mare in continuo movimento. Una delle mie occupazioni preferite, quand'ero bambina, era riempire un lavandino d'acqua e versarci lo smalto per unghie per vedere cosa succedeva quanto, all'improvviso i colori si allargavano sulla superficie e si mischiavano creando mutevoli forme fluttuanti". Il riconoscimento dell'opera della Frankenthaler avvenne quando Clement Greenberg nel 1960 scrisse della pittura di Morris Louis e Kenneth Noland sulla rivista "Art Intenational" sentenziando che Louis aveva superato l'influenza del cubismo e preso una nuova direzione artistica dopo l'incontro con la pittura di Jackson Pollock e con il dipinto Mountains and See di  Helen Frankenthaler .
M. Louis . Gamma Micron 1960
Come la pittrice, da quel momento Louis aveva lavorato su tele non preparate nelle quali il colore diluito penetrava lasciando visibile la trama della tela.
K. Noland - Half 1959
Anche Kenneth Noland preferiva tele non preparate e si concentrava su un impiego del colore non gestuale, non 

concreto, che privilegiava l'aspetto visivo a quello tattile.
Poco dopo, Greenberg definì la caratteristica tecnica pittorica di Helen Frankenthaler, il suo "colorare" la tela non preparata che ricordava l'acquerello, l'anticipazione di una tendenza che lui stesso chiamò nel 1964 "Post Painterly Abstraction" cioè Astrazione Postpittorica. 











domenica 22 novembre 2015

Adrián Villar Rojas. Rinascimento

Alla Fondazione  Sandretto Re Rebaudengo di Torino fino al 28 febbraio 2016 è possibile visitare la prima personale in Italia dell'artista argentino Adrián Villar Rojas.
Le sue opere, spesso monumentali, esplorano il potenziale narrativo della scultura contemporanea includendo rimandi molteplici, alla storia dell'arte così come  alla cultura pop, dal cinema alla fantascienza alla musica, dai fumetti alla letteratura e si caratterizzano per la forte componente installativa, capace di trasformare profondamente gli spazi in cui si inseriscono, dando vita a scenari, mondi da attraversare, quasi fossero dei "film fatti di sculture".






La mostra inizia  dall'ingresso alla fondazione: l'artista ci disorienta, non troviamo più i riferimenti a cui siamo abituati: entrando non c'è la biglietteria, l'artista l'ha nascosta dietro un muro,  ha chiuso la porta di accesso al bar, ha eliminato le pareti divisore che delimitavano i diversi spazi del museo ed è intervenuto sull'illuminazione degli ambienti da lui concepiti.
Adrián Villar Rojas ha creato il suo mondo, all'interno del quale ha installato le sue opere.
Come fotogrammi cinematografici, le opere di Villar Rojas sono oggetti carichi di tempo, dispositivi che lo raccontano per immagini, dai reperti preistorici ai paesaggi più avveniristici o post-apocalittici, e lo registrano nella fisicità della materia, in un processo costante di evoluzione e decadimento. 
Sono tipiche le grandi installazioni, realizzate in una miscela di argilla cruda e cemento, dall’aspetto fratturato, crepato, come se la materia fosse già in stato di avanzata corruzione, come se il tempo stesse trasformando gli oggetti in rovine di fronte ai nostri occhi. Una fragilità non solo apparente, ma determinante per il destino di opere che molto spesso non sono sopravvissute all’evento espositivo, essendo concepite per essere effimere.
Il  materiale organico fondendosi con quello inorganico, naturale o artificiale, dà vita a ibridi inquietanti, artefatti instabili, soggetti a continue mutazioni. Animali, piante, minerali, fossili e reperti di un mondo oggettuale prodotto dall’uomo si compongono in un universo dalle sembianze distopiche, carico di tutta la memoria del mondo.


Dal macro al micro, questa memoria include una dimensione più personale e biografica, legata al carattere nomade del lavoro di Villar Rojas, che sviluppa i suoi progetti in stretto legame con i luoghi e i contesti espositivi. Ogni intervento porta così traccia di quello che lo ha preceduto, o si sviluppa a partire da quello, dalle ricerche o dalle suggestioni che ogni luogo ha ispirato all’artista. L'artista è sempre affiancato dal suo team di collaboratori, che lo seguono in tutti i progetti internazionali cui è invitato. Questo studio errante, o meglio compagnia teatrale, per usare la metafora prediletta dall’artista, è composto da artisti, artigiani e tecnici che, sotto la direzione dell’artista, collaborano per diverse settimane o mesi precedenti la mostra, realizzando in situ le opere e i progetti.

A partire da settembre lo studio Villar Rojas si è trasferito a Torino per dar vita a Rinascimento, una nuova grande produzione pensata dall’artista per gli spazi della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.



Adrián Villar Rojas è nato a Rosario, Argentina nel 1980. Tra le sue personali più recenti, Fantasma, Moderna Museet, Stoccolma, 2015; Los teatros de Saturno, Galeria Kurimanzutto, Mexico City, 2014; Today We Reboot the Planet, Serpentine Galleries, Londra, 2013; La inocencia de los animales, MoMA PS1, New York, 2013. Ha partecipato alle più importanti mostre internazionali, tra cui la 12a Biennale di Sharjah, 2015; Documenta 13, Kassel, 2012; The Ungovernables, New Museum Triennial, New York, 2012. Nel 2011 ha rappresentato l’Argentina alla Biennale di Venezia. A settembre 2015 é presente con un grande nuovo progetto alla Biennale di Istanbul e con la prima personale alla Galleria Marian Goodman di New York.

venerdì 20 novembre 2015

Christian Boltanski. DOPO




Fino al 31 gennaio 2016 è visitabile presso la Fondazione Merz la mostra Cristian Boltanski. DOPO
Nato a Parigi nel 1944 è un artista concettuale francese 

che mette al centro delle sue riflessioni la problematica del tempo, nel suo lavoro è costante lo sforzo di ricordare e documentare il vissuto e la quotidianità attraverso forme di catalogazione.

Boltanski lavora sulla memoria e sottopone il passato ad un attento esame, ricostruendo testimonianze e classificandole come reperti.
Vitrine de référence 1971
All'inizio della sua carriera cerca di custodire la propria vita inserendone i reperti dentro scatole di biscotti o disponendoli in vetrine che mostrano documenti, gli attestati di quanto gli è accaduto, lettere d'amore insieme a fotografie, carte burocratiche e di lavoro. Non potendo però ricorrere al prelievo diretto di tutti i documenti del passato, li ricostruisce per poi fotografarli. Così facendo si propone di trasformare la propria autobiografia in quella degli altri, che vi si riconoscono coi propri ricordi. 
Questa è la funzione dell'arte secondo Boltanski: l'artista diventa specchio e desiderio degli altri, diventa gli altri e non ha più un'esistenza propria. Come egli afferma "non si può creare che scomparendo".
Negli anni successivi allarga la sfera d'interesse fino a includere nelle opere reperti tratti dalla memoria collettiva e dalle grandi tragedie dell'umanità, costruendo veri e propri sacrari alla memoria.
Monument Les Enfants de Dijon - 1985
Il carattere scenografico di questi altari deriva dall'uso di fioche lampadine che illuminano le fotografie dei volti dei protagonisti scomparsi.
Presente quest'anno alla Biennale di Venezia con la video installazione Animitas del 2014, un lavoro fatto in Cile nel deserto di Atacama. L'artista ha installato 300 campanelli sulla cima di alcune piante che, mosse dal vento creano una musica che sembra venire dal cielo, qualcosa di celestiale. Il deserto di Atacama è il posto migliore per vedere le stelle e lì ha prodotto lo sky map della notte in cui è nato. Allo stesso tempo il luogo scelto è una sorta di cimitero delle anime dove Pinochet abbandonava le persone per farle sparire completamente e per questo è un posto particolare: abbraccia la terra e il cielo sotto il quale ci sono i resti di coloro che lottarono contro la dittatura.
Christian Boltanski riesce a parlare degli eventi e delle vite che si rincorrono nel tempo, della casualità del loro succedersi e a riconnettere presente e vissuti in un esercizio costante che permette di non dimenticare, giocando con la storia personale e l'invocazione cosmica.
La mostra DOPO si sviluppa nell'intero spazio della Fondazione Merz ed è concepita come un'installazione totale e coinvolgente.
E' un unico racconto corale che parla alla memoria collettiva ed individuale, che sa unire passato e presente e che sa ricongiungere la Storia alla vita di ciascuno.
Il percorso espositivo si apre con una grande installazione composta di circa 200 grandi fotografie stampate su tessuto, sospese al soffitto e in continuo movimento nello spazio.
I volti e le immagini di piccole quotidianità arrivano dall'archivio personale dell'artista che negli anni ha raccolto storie concentrate in sguardi, ritratti e scatti apparentemente colti di sfuggita.
Il moto continuo impresso nelle immagini sospese nel vuoto è un invito a lasciarsi andare al flusso del tempo e della memoria. Le foto girano come i fatti della vita, si può decidere di inseguirle con lo sguardo o muoversi con e dentro di loro, ma poi alla fine bisogna lasciarle andare e pensare al dopo. Per chi rimane e per chi è andato via, il dopo è sempre il risultato di quanto è accaduto prima e dunque Boltanski ci invita alla consapevolezza e non all'ossessione.
Sequenze rapide di foto che si prestano al gioco del tempo (il volto sullo schermo si trasforma,  l'artista da bambino diventa un uomo) e ombre che a sorpresa appaiono in mostra insistono sulla precarietà umana, nel tentativo di trattenere ciò che sfugge ma soprattutto sul coinvolgimento individuale nella narrazione collettiva che si chiama vita, storia, pensiero.
Proseguendo nel percorso una platea ci guarda e ci invita a scendere le scale che portano al piano inferiore e ad entrare, sottolineando il nostro passaggio con un applauso.
Discesa la rampa di scale ci si imbatte infine in scatole di cartone ricoperte di cellopane. Esse prendono possesso dello spazio, impilate una sull'altra senza schema apparente, formano costruzioni di dimensioni differenti. 
Instabili torri, archivi scomposti, evoluzione delle boites de biscuits care a Boltanski, poggiano a terra come dimenticate e appena rischiarate dalla luce delle lampadine che da lontano scrivono DOPO nel buio.
La memoria è lì ed attende solo di essere riattivata, aprendo cassetti, cercando nelle storie comuni, giocando con i rimandi nel presente...














venerdì 13 novembre 2015

Sapevate che ... visita insolita alla GAM di Torino




Forse, dopo un lungo peregrinare per le sale di un museo, vi è capitato di riposare sedendovi su una panca. Lo avrete sicuramente fatto anche alla GAM, lo dico soprattutto ai Torinesi ma anche a coloro che si recheranno alla Galleria d'Arte Moderna di Torino da domani in poi.
Bene, se vi capita di visitare o rivisitare la parte permanente del museo, fate attenzione alle panche perché sono il supporto di un'opera d'arte ... 
Come? Si avete capito bene.
Nel mese di novembre 2013 l'artista bulgaro Nedko Solakov (Tcherven Briag 1957) durante l'orario di apertura e sotto gli occhi dei visitatori,ha realizzato due opere intitolate "Eight Ceillings" e "Thirteen Benches", opere che resteranno patrimonio del museo; si è trattato di una delle rare occasioni a livello internazionale in cui l'artista ha lasciato un segno permanente del proprio lavoro.
Ma scopriamo di cosa si tratta.
L'opera "Thirteen Benches", donata dall'artista si compone di numerosi testi e disegni realizzati a pennarello che inducono ad riflessione spesso riferita al campo dell'arte.  "Un grande artista con piccolo (capo)lavoro" recita uno dei suoi interventi sulla panca posta davanti al grande Humbaba di Kiefer


Danilo Eccher e l'artista Nedko Solokov  
mentre più avanti quattro minuscoli personaggi popolano  gli angoli di una panca: "curatori", "collector" "artist" e "art lover" sono i protagonisti simbolici del mondo dell'arte.
Ma il divertimento è andare alla ricerca degli interventi effettuati da Solokov sulle panche


io ve ne ho fotografati alcuni, gli altri scopriteli voi ...
















Ma abbiamo detto che gli interventi sono due.

Infatti salendo o scendendo le scale del museo, sui soffitti si incontrano testi e disegni realizzati a china, si tratta dell'opera acquistata dalla Gam dal titolo "Eight Ceillings" . L'artista per realizzarli ha sfruttato le imperfezioni del soffitto, le ombre e le luci ma anche i segni e le impronte lasciate dai visitatori: improvvisamente una crepa nel muro diviene un paesaggio, una ditata diventa un volto sorridente oppure una piccola escrescenza di vernice si trasforma nel sorriso di un diavolo.














Osservando i soffitti e scrutando le panche vi troverete coinvoli in un'avvincente ricerca delle molteplici tessere disseminate negli spazi di collegamento del museo e lungo il percorso espositivo. Queste, colte una dopo l'altra, in parte o nel loro complesso, compongono il racconto di Solakov. Un racconto che, come sempre avviene nei suoi lavori, pone in discussione molte delle tradizionali certezze alla base della nostra società.



Adesso tocca a voi fare la caccia al tesoro... buon divertimento!


mercoledì 11 novembre 2015

LA GRANDE MADRE

 
 
 

Al Palazzo Reale di Milano sino al 15 novembre 2015 è possibile visitare la mostra "La Grande Madre" a cura di Massimiliano Gioni che racconta l'iconografia della maternità lungo tutto il Novecento fino ai giorni nostri, attraverso l'opera di artisti internazionali suddivisi in 29 sale, in un costante scontro fra tradizione ed emancipazione.
Forse un po' artificiosamente, ma è l'unico difetto, si è voluto collegare la mostra all'Expo: la madre è, più di ogni altra, la figura che dà nutrimento, questo il rimando alla Nutrizione tema della grande Esposizione Universale.
Sulla madre si focalizzano tutte le opere in mostra, in un grande racconto collettivo che mette in scena  la relazione tra le donne ed il potere. 
Secondo quanto dichiarato dallo stesso curatore il tema centrale è proprio il potere delle donne, non solo quello generativo, ma quello a loro negato e poi  poco alla volta conquistato con la lotta che è avvenuta soprattutto nel secolo passato e che  ha provocato profonde trasformazioni nella cultura, nella società, nella percezione della sessualità, dei generi, del corpo e dei suoi desideri. Il corpo della donna è stato un vero e proprio campo di battaglia sul quale si sono operati mutamenti epocali.
Venere di Willendorf
Il culto per una divinità femminile legata alle potenze della terra, simbolo di forza generatrice, capace di proteggere e nutrire si trova già in età preistorica e viene definita la Grande Madre. La mostra di Palazzo Reale si apre con una collezione di immagini femminili del passato, veneri, madri, matrone, divinità preistoriche che  Olga Fröbe-Kapteyn raccolse in uno sterminato archivio. Fu a questa documentazione che Carl Gustav Jung e Erich Neumann attinsero per le loro ricerche sull'archetipo psicologico della Grande Madre, mentre storici ed antropologi vi si rivolsero per studiare le culture matriarcali.
Self portrait/Nursing 2004
Pregnant image 1988-1990
Analizzando l'immagine della Venere di Willendorf, risalente a 26 mila anni fa, si può notare come la raffigurazione di una donna con caratteristiche esagerate, il ventre ed il seno molto pronunciati ci rimandino agli autoritratti dell'artista Catherine Opie che allatta o alla figura femminile dipinta da Marlene Dumas, dimostrazione del fatto che la rappresentazione della femminilità pur attraversando i millenni, ha mantenuto le stesse caratteristiche iconografiche.
La connessione profonda che lega la maternità alla natura, alla terra e alla fertilità è un tema ricorrente in molti miti e tradizioni di culture diverse. Anche nel corso del '900 molti artisti utilizzeranno questo tema per realizzare le loro opere e ne sono un esempio Lucio Fontana con le sue nature e forme biologiche e Ana Mendieta con le sue divinità primordiali

Ma è in particolare nel Novecento che si possono trovare scottanti tematiche prettamente legate al femminile, per evidenziare la peculiarità di genere, per costruire ruoli ed identità, per rivendicare diritti.
E' dell'inizio di questo secolo la pubblicazione di L'interpretazione dei sogni di Sigmund Freud punto di partenza per la diffusione della psicoanalisi: il baratro dell'inconscio viene spalancato e le dinamiche della relazione materna si trasformano nel racconto drammatico del complesso di Edipo. Freud scrive scandalosamente che "l'anatomia è il destino" e a questo risponde Simone de Beauvoir con il suo libro "Il secondo sesso" del 1949 che sarà il polo entro cui si muoverà il lavoro di tante artiste di quel secolo: donne non si nasce, lo si diventa.
E' in questo contesto culturale e storico che devono essere collocate le opere della mostra di Milano che segue un criterio cronologico.

Partendo dalle foto sulla maternità di Gertrude Käsebier e dai film di Alice Guy-Blaché (prima regista donna), la rassegna si sofferma sulle avanguardie storiche, nelle quali il ruolo della donna è spesso controverso.
Le donne del Futurismo promuovono nuovi modelli di femminilità e di emancipazione , immaginando nuove relazioni tra i sessi e mentre Tommaso Marinetti inneggiava al suo disprezzo e scriveva "Come si seducono le donne" , Valentine de Saint-Point nel 1912 rispondeva scrivendo il "Manifesto della donna futurista" .
La danzatrice realizzata nel 1930 dalla giovane artista Regina che avvicina il suo lavoro agli ideali formali di Boccioni è una piccola ballerina realizzata in lamina di alluminio.
La scultura dalle linee semplificate racchiude in sè la leggerezza aerodinamica e  ricorda un automa o una piccola ballerina da carillon ritagliata nel materiale tagliente  della fusoliera di un aeroplano. Il culto futurista della velocità e della tecnologia si coniuga qui con un gusto giocoso, da casa di bambole  

Negli stessi anni altri artisti dell'avanguardia Futurista e Dada immaginano un'umanità di manichini e robot impegnati in balletti meccanici e accoppiamenti inediti di biologia e tecnologia, in cui la macchina è descritta come donna e oggetto erotico.

Mentre il Dadaismo auspicava la creazione di una donna meccanica, il Surrealismo subiva la fascinazione del mito femminile e proclamava la donna musa. Presenti in nostra opere di Marchel Duchamp ma anche della sorella Susanne Duchamp, di Max Ernst e di Frida Kahlo
La cerva ferita 1946 Frida Kahlo
Scene del cinema muto e spezzoni di documentari di epoca fascista sulla mussoliniana politica delle nascite fanno da contraltare alle opere.
Phallic Girl - 1967 Yayoi Kusama
Dopo una selezione di opere di Louise Bourgeois, la mostra prosegue con le artiste che, negli anni '60 e '70, cominciarono a riscattare il corpo delle donne dal suo ruolo di oggetto della sguardo maschile: Magdalena Abakanowicz, Doroty Iannone, Yayoi Kusama , Ana Mendieta, Marisa Merz.

Succhia il mio seno sono, sono
 la tua bellissima madre 1970-71
Con l'emergere dei movimenti femministi, anche nel mondo dell'arte si riflette sui ruoli all'inteno della famiglia, e della casa e lo spazio domestico è spesso descritto come luogo di ingiustizie: lo raccontano tra le altre Yoko Ono e Dorotty Iannone Gli anni Ottanta sono il momento in cui le artiste si riappropriano delle iconografie della storia dell'arte e giocano con sovrapposizioni e mescolanze, come nel caso di Katharina Fritsch e Cindy Sherman

Katharina Fritsch 1987
Cindy Sherman - Ritratti storici
1988-1990



Rineke Dijkstra 1994
Mentre negli anni '90 prevale un linguaggio più aggressivo ed esplicito, come quello di Rineke Dijkstra ,Sarah Lucas, Catherine Opie, Marlene Dumas. Più di recente la biologia viene stravolta dalla tecnologia ed il risultato è la creazione di una realtà post-umana dai tratti inquietanti, come nel caso del video di Nathalie Djurberg, i cui personaggi di plastilina mettono in scena situazioni di sottile violenza e perversione erotica
 
Lungo tutto questo percorso, la madre non è più solo colei che dà la vita, ma una figura capace di raccogliere ed incarnare proiezioni, desideri, angosce, miti personali e collettivi, che soltanto le immagini dell'arte riescono ad esprimere.